14.1.09

Mahmud Darwish ....................

Carta d’identità

Scrivi : sono un arabo;
la mia carta porta il numero cinquantamila.
Ho otto bambini,
e il nono nascerà dopo l’estate.

Ti dispiace forse ?
Scrivi : sono un arabo;
impiegato con i compagni della miseria in una cava,
ho otto bambini
per i quali dalla roccia
ricavo il pane,
i vestiti ed il quaderno.
Non chiedo la carità alle vostre porte
né mi umilio davanti alle piastrelle dei gradini.

Ti dispiace forse ?
Scrivi : sono un arabo; un nome senza titolo
e resto paziente in una terra
dove tutto vive con impulso di furia.

Le mie radici si sono ancorate qua,
prima del nascere del tempo
prima dell’apertura delle ere
anteriormente ai cipressi, agli uliveti
ed al crescere dell’erba.

Mio padre …viene dalla stirpe dell’aratro,
non è un figlio di signori privilegiati,
mio nonno pure era un contadino
né ben cresciuto, né ben nato !

Mi insegnava l’orgoglio del sole
prima di insegnarmi la lettura dei libri.

La mia casa è la guardiola di un custode
fatta di rame e di canna.

Sei soddisfatto della mia posizione ?
Ho un nome senza titolo !

Scrivi : sono un arabo;
dai capelli color carbone
e dagli occhi bruni.

La mia descrizione:
un akal sulla kufiyya copre il mio capo;
e il palmo della mano duro come la roccia,
graffia chi lo oserebbe toccare.

Il mio indirizzo è :
un villaggio disarmato … dimenticato
dalle vie senza nomi.

Scrivi : sono un arabo;
avete rubato la vigna dei miei nonni
e la terra che coltivavo
insieme ai miei figli.

Senza lasciare a noi nulla
né ai nostri nipoti …
se non queste rocce.

E’ forse vero che il vostro stato
prenderà anche queste …
come si mormorava ?
Allora !

scrivilo in cima alla prima pagina :
“non odio la gente
né aggredisco alcuno,
ma se divento affamato
la carne dell’ usurpatore
sarà il mio cibo.

Attenzione !
Guardativi
dalla mia collera
e dalla mia fame !


La vita e le opere di Mahmud Darwish


La vita e le opere di Mahmud Darwish
Tratto dal testo: “ Poesie della Resistenza Palestinese”
Edizione “Al Hikma” Febbraio 2003






IL MISFATTO...è STATO COMPIUTO ..SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI




Gaza è la casa dei coraggiosi.

Coraggiosi perché hanno molto da perdere e non vogliono perderlo, anche a costo delle loro vite e delle vite di chi vorrebbe offrirli in olocausto al vitello in piombo fuso.

Hanno la dignità che noi abbiamo perso, hanno l’orgoglio che noi abbiamo dimenticato, hanno la speranza che ci ha abbandonato.

Tutto questo naturalmente frammisto ad un’antica disperazione, che non è mai stata tuttavia un freno ma uno sprone a fare di più e meglio.

Questo popolo è circondato dal deserto dei potenti e abbracciato dalla foresta pluviale della solidarietà di operai, donne, studenti.

Piccole formiche in fondo, noi che sosteniamo il diritto all’esistenza di Palestina, ma formiche tenaci, che hanno imparato - chi sulla propria pelle, chi perché ha conservato la capacità di indignarsi - che la memoria non può essere selettiva e che gli orrori del passato non possono giustificare quelli perpetrati oggi.


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Quello di Lorenzo Cremonesi del “Corriere della Sera” è il primo reportage di un giornalista italiano entrato nella Striscia di Gaza. E chi ha occhi per guardare vede e se vede racconta: “almeno l’80 per cento delle vittime –si legge nel pezzo sul Corriere- sono bambini, anche piccolissimi, donne, anziani. Qui si sta sparando contro la società civile senza porsi troppi problemi”.
Tra le vittime di Gaza: il sangue e le accuse
Viaggio nella Striscia arrivando dall’Egitto. I racconti nell’ospedale: «Colpiti soprattutto i civili»


YUNIS (Striscia di Gaza) — Entriamo verso le 14.00 con il bus egiziano scalcagnato dal posto di frontiera a Rafah. C’è un’atmosfera tesissima, Israele per tutta la mattina ha bombardato i tunnel lungo il confine. I caccia nel cielo, il fischio, lo scoppio, profondo, terrificante. Alcune bombe sono cadute poche decine di metri da qui, infrangendo parte delle vetrate al terminal egiziano. Sul bus siamo in due. L’altro passeggero è un dottore palestinese che rientra a casa. Dall’altra parte, in «Hamasland», non ci sono sentinelle armate, solo un paio di uomini barbuti con vestiti bruni impolverati che parlano al walkie talkie.
Per lasciare il terminal ci si muove in ambulanza: tutti, indistintamente. Le strade sono vuote. Solo tre vecchie Mercedes lungo i quattro chilometri che portano all’ospedale europeo nella zona palestinese di Rafah. Qui è la regione dei tunnel, la più colpita dagli israeliani. Chi può se ne sta ben lontano. Molte case sono abbandonate, alcuni capannoni sono chiusi, serrati. Si notano invece molti carretti tirati da muli, non utilizzano benzina (ora costa un dollaro e mezzo al litro, il triplo di un mese fa). La maggioranza dei negozi è chiusa, ma dicono che qui le scuole sono aperte di mattina e a ogni tregua i contadini tornano a lavorare nei campi, anche quelli più a rischio.
L’entrata all’ospedale è accompagnata dal grido corale « shahìd, shahìd » (martire). Sono due barelle arrossate di sangue e sopra due morti. Uomini, giovani, il cervello che cola dalla testa. Alcune donne vestite di nero, il volto scoperto, invocano Allah, piangono. Quando vedono un giornalista occidentale inveiscono contro Israele e i suoi «crimini nazisti». Seguono alcuni feriti, almeno sei. Uno è scosso da tremiti continui. Anche lui ferito alla testa. Il volto è irriconoscibile, il naso aperto, gli occhi sbarrati.
Oggi Israele ha colpito duro i villaggi della zona sud orientale, quelli che guardano al deserto del Negev. Risuonano continuamente i nomi di due località: Abasan e Kuza, rispettivamente 25.000 e 16.000 abitanti. «Praticamente tutte le vittime gravi delle ultime ventiquattro ore vengono da quei due villaggi. Il nostro ospedale manda i casi più difficili all’ospedale più importante, il "Nasser" di Khan Yunis », spiega Kamal Mussa, direttore amministrativo dell’istituto. Qui regna il caos. I guardiani lasciano entrare tutti al pronto soccorso. I medici appaiono professionali, molti di loro hanno studiato all’estero, al Cairo, ma anche in Italia, Francia e negli Stati Uniti. Non mancano medicinali, né macchinari. Pure la folla è troppa, il pronto soccorso ne è sommerso. «Gli israeliani non hanno umanità, sparano nel mucchio, non distinguono tra soldati e civili, mirano ai bambini, sparano sulle case», gridano i membri dei clan tribali più colpiti, i Qodeh e Argelah.
Un dato sembra evidente, almeno per il sud di Gaza: non c’è malnutrizione. Nonostante l’aumento dei prezzi, la mancanza di alcuni generi alimentari, il blocco dei movimenti, a Gaza nessuno muore di fame. «La situazione è molto peggiore nei grandi campi profughi più a nord, come quello di Jabaliah. Ma qui nel sud il cibo non manca», dice Saber Sarafandi, dottore internista di 30 anni. Lui e il suo collega infermiere, Mohammad Lafi, appena tornato da un lungo corso di perfezionamento negli Stati Uniti, a New Orleans, sono evidentemente dei moderati. Hanno ben poco da spartire con la cultura della guerra santa e del fondamentalismo islamico propagandata da Hamas. Anzi, guardano con un certo fastidio ai ragazzi dalla barba lunga e l’uniforme nera che si muovono nell’atrio dell’accettazione. Eppure di un fatto sono convinti: «E’ vero che Hamas ha rotto la tregua e ha fatto precipitare l’inizio dei combattimenti il 27 dicembre. Ma Israele ci stava prendendo per il collo, non avevano alternativa. I fatti gravi non sono neppure tanto gli omicidi mirati, perpetrati da Israele anche ai tempi della tregua. Sono piuttosto il sigillare Gaza come una grande prigione. La scelta di Hamas è stata tra l’essere uccisi a fuoco lento, oppure velocemente nella guerra. E hanno giustamente scelto lo scontro subito, un grido al mondo. E così facendo sta catturando le simpatie della popolazione. Hamas è oggi più forte che mai tra la nostra gente».
Alle sette di sera cala il buio. Non c’è illuminazione pubblica. Le finestre delle abitazioni sono serrate. E’ allora che un’ambulanza nuova fiammante, appena arrivata dall’Egitto, offre un passaggio per l’ospedale centrale di Khan Yunis. Il viaggio nella notte più nera prende meno di venti minuti. Le strade sono semivuote, ma comunque più popolate del pomeriggio. Si vedono soprattutto giovani uomini, apparentemente disarmati. Per un secondo il mezzo si ferma a raccogliere un medico che porta con sé un bambino di quattro giorni. Vicino c’è una botteguccia che vende bombole di gas da cucina. «Sono diventate una rarità — spiega Amal, l’ambulanziere —. Prima costavano 35 shequel israeliani, adesso superano i 400». Così ci si industria a cercare legna da ardere per cucinare sul pavimento.
Il «Nasser» è presidiato da centinaia di ragazzi. Tanti perdono tempo, si sentono importanti a contare i morti. Tanti altri sono però palesemente militanti di Hamas, che guardano con un misto di sospetto e curiosità ogni occidentale che entra. E’ il direttore amministrativo del «Nasser», We’am Fares, a fornire nel dettaglio le cifre della guerra. Sul muro dietro la sua scrivania c’è la foto di Yasser Arafat e frasi del Corano incorniciate. Tutti i 350 letti dell’ospedale sono occupati. «Solo oggi abbiamo ricevuto 12 morti e 48 feriti di età comprese tra i 13 e 75 anni. Dal 27 dicembre i morti da noi sono stati 680, i feriti curati 183, tra tutti almeno il 35 per cento sono bambini minori di 14 anni ».
Appare invece difficilissimo trovare risposte certe all’uso delle bombe al fosforo. Gli israeliani le hanno utilizzate o no, è possibile vedere qualche ferito? «Certo che le hanno usate, contro tutte le convenzioni internazionali. Qui a Khan Yunis abbiamo contato almeno 18 feriti e 7 morti», dicono all’unisono medici e infermieri. C’è un problema però: «Non si possono vedere. Tutti i feriti da armi al fosforo sono già stati trasferiti all’estero, specie in Egitto e Qatar». Resta vago anche Christophe Oberlin, un chirurgo di Parigi arrivato 3 giorni fa per conto del governo francese: «Io personalmente non ne ho visti di feriti da fosforo e non so se potrei davvero distinguerli dagli altri feriti, non sono un medico di guerra». Però di un fatto è sicuro: «Gli israeliani dicono che solo il 30 per cento delle vittime palestinesi sono civili. Questa è una palese menzogna, sono pronto a testimoniarlo davanti a qualsiasi tribunale internazionale. È vero il contrario: almeno l’80 per cento delle vittime sono bambini, anche piccolissimi, donne, anziani. Qui si sta sparando contro la società civile senza porsi troppi problemi. E le ferite che ho visto sono orribili. Moltissimi dei pazienti muoiono sotto i ferri». Verso le dieci di sera arrivano altre ambulanze cariche di feriti. Una scena carica di dolore, alleviata solo dal grande sorriso di Asma, una bambina di 10 anni ferita al torace, ma che parla veloce, quasi allegra e promette che da grande andrà all’università.

Lorenzo Cremonesi 14 gennaio 2009